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Camminare sull'acqua

Senza troppo informarmi prima, se non per le cose pratiche, senza troppe aspettative ma con il timore, anzi, della ressa, d'impulso ho deciso di andare a vedere i Floating Piers di Christo sul Lago d'Iseo.
Ho trovato una socia nella scelta, un po' bislacca, di partire ben prima dell'alba per andare a vederla dalla passerella. Non ci è stato possibile: non era vero infatti che il percorso è aperto 24h, non lo è stato, almeno, ieri, 19 giugno.
E per fortuna che ero in compagnia, da sola forse non mi sarei forzata alla partenza alle 3:30 del mattino e probabilmente non avrei retto al disappunto di dover aspettare 2,5 ore in coda, per aspettare l'apertura alle 8:00. La ressa per me è un deterrente grande, tra becerumi, furberie, fumo. schiamazzi e scompostezze varie. Però mentre si aspetta a volte si fanno anche chiacchiere gradevoli, sono queste da valorizzare.
Ma se non avessi seguito l'impulso sarebbe stato un peccato.
L'opera per me è bella ed è un'esperienza che sono contenta di aver fatto.
Come tutte le cose che hanno un valore, ha diversi livelli.
Uno sensoriale, fisico: il leggero dondolio mentre si cammina, la brezza, i suoni, tra i quali con un po' di pazienza si riesce ad isolare quelli della natura, gli uccelli, gli insetti, il vento, l'acqua (https://www.youtube.com/watch?v=VT4x02zerD0); e il colore, questo arancione così acceso e così perfetto, che non si può non vedere, che guida lo sguardo, che è una sorta di sigillo: io, l'artista, ho fatto questo, per te.


Per darti l'occasione di vedere un luogo come non l'avevi mai visto, di arrivarci camminando, dove il cammino è negato, per guidarti, passo passo, letteralmente, a questa scoperta.



Un altro livello, infatti, è che questa è un'opera da vivere, da sperimentare, da calpestare, da camminare: il fruitore è invitato ad entrarci e a farne parte.












La partecipazione, la condivisione dell'opera e dell'esperienza con altri è il livello per me più inatteso: quella folla che mi stava allontanando è la stessa che meglio rappresenta l'aspetto simbolico: è solo guardando gli altri che davvero il "camminare sulle acque" acquista un senso.

E infine, non meno importante, il livello dell'intellettualizzazione, quando ci ripensi e cerchi il senso e dai il senso all'idea, all'opera, all'esperienza. E ne apprezzi la realizzazione, la visione, il progetto. Apprezzi anche che sia a tempo e per tutti: è un'occasione, uno sguardo, una suggestione, un momento che porti con te. Non è permanente, ma va a costituire, e un po' anche a costruire, il vissuto di chi decida di aggiungerci questa esperienza.

Ho letto alcune critiche, soprattutto che andare per andare conta poco. Ed è vero, questo è il limite, spesso, delle esperienze di massa, che si auto-alimentano e si riducono a consumo, che si bruciano nella spunta del "fatto", "io c'ero". Ecco, se i critici invece che stigmatizzare invitassero a cogliere i tanti livelli forse il consumo si arricchirebbe di senso, e sarebbe un valore aggiunto.

Altre critiche riguardano la necessità di inserire questa opera nel contesto del lago e dei suoi luoghi e delle sue ricchezze, artistiche e di costume, ma questo secondo me riguarda più la pro-loco che l'idea artistica.
Credo che a questo proposito si possa parlare di occasione un po' sprecata: tanto clamore, tanta curiosità, tanta attenzione, tanto successo potevano essere raccolti meglio; magari accadrà nei prossimi giorni ma la mia sensazione ieri è stata di affanno, di inadeguatezza, di timore.
Come quando fai una cosa ma non ci credi fino in fondo, e quindi resti un po' in mezzo al guardo. Peccato, perché Christo le passerelle le ha messe, per completare la traversata.


Primo Giorno

E finalmente si parte, dopo colazione e due chiacchiere - e già mi rendo conto che questa cosa che sto per fare è un bell’argomento di conversazione. 
Poco più di 100 miglia mi separano dalla mia esperienza.

Ma intanto mi godo la gita attraverso gli Scottish Borders prima – sulla A702, attraverso la Clyde Valley, belli, rilassanti, verdi, senza traffico, di farm e paesini e pochi rilievi modesti – e il Dumfries & Galloway, attraversando il Galloway Forest Park. Mi colpiscono il rigoglio della vegetazione, alberi, fiori di tutti i colori e siepi, prati verdi sconfinati, ma anche le vallate profonde e inattese. 




Attraverso paesini deliziosi e noto che abbondano gli studi di pittura, di ceramiche, di arte varia. Incrocio anche tante auto d’epoca, bellissime, dirette certamente a qualche raduno.

Mentre entro in Wigtown alla radio passa “Homeward bound” di Simon & Garfunkel (mia prima grande passione musicale). Non posso non pensare che sia di ottimo auspicio, e in fondo un po’ mi sento diretta a casa.





Arrivo accanto alla libreria senza neanche cercarla, è lì, mi sta aspettando. Sono un po’ emozionata.
Entro e mi accoglie George, un volontario del Festival. Cominciano i sorrisi. Mi fa vedere la libreria, piccolina ma deliziosa, scaffali alti pieni di libri usati, divisi per settori, narrativa, storia, natura, giardinaggio, cucina, interesse locale, bimbi e giovani adulti; mi spiega come funziona la contabilità: un registro su cui annotare il genere di libro venduto e il prezzo, la cassettina degli incassi e la lavagna da esterno, per invogliare i clienti ad entrare; si premura di precisare che quando piove, però, non funziona.

Wigtown è la città scozzese del libro, conta 900 abitanti e una ventina di librerie, tra cui la più grande, e bellissima, libreria di libri usati di Scozia. Alcune sono anche sale da te, tavole calde, negozi di varia oggettistica. Praticamente quasi tutti i negozi a Wigtown vendono anche libri usati. E in  autunno  c’è il Festival del libro. La maggior parte delle attività, qui, ruotano intorno ai libri, e questo ha un discreto richiamo turistico.

Saliamo a vedere l’appartamento, a un paio di metri di distanza dall’ingresso della libreria, il percorso casa-lavoro più breve che si possa immaginare. E’ grande e delizioso, con le finestre a bovindo della sala che affacciano sulla via principale, e arredato con gusto e calore. Sento che starò molto bene in questo ambiente così accogliente.

Poi George mi consegna le chiavi e mi saluta. Ora la libreria è tutta mia. Non vedo l’ora di iniziare, sistemo in fretta le mie cose, faccio uno spuntino veloce con dei dolci presi alla Co-op che ho proprio di fronte e poi vado ad aprire.

Posso iniziare a personalizzarla, ci sono la lavagna e il tavolo all’ingresso sui cui iniziare a mettere la mia firma. E inizio a girare per gli scaffali e a guardare i libri, cerco di capire come sono disposti, che libri sono, inizio a prenderli e guardarli, inizio a farli miei.
Dopo un po’ entra il mio primo cliente, cerca White Shark di Peter Benchley; non capisco né autore né titolo, e non ho idea di cosa sia. Cominciamo bene, mi dico. Dopo un po’ di domande e ripetizioni finalmente andiamo a vedere nella fiction ma non c’è. Ma intanto il ghiaccio è rotto, la via è aperta. Qualche giorno dopo verrà in libreria suo figlio (in un paesino è un attimo ricostruire le parentele) e mi darà molta soddisfazione comprando ben due romanzi. Entrerà ancora qualcuno a curiosare, ma il primo giorno non vendo nulla, non mi decido a chiudere ma finisco per capitolare di fronte  alla strada principale che resta deserta.


Penso ai libri usati. Non li ho mai considerati granché, presa dalle novità e dalla perfezione intonsa del libro nuovo, ma adesso che per una settimana li ho toccati, guardati, aperti, spostati, annusati posso dire che il libro usato ha un gran fascino e tanta energia. E mi fa pensare che i libri non sono fatti per fermarsi, ma devono andare, cambiare di mano, scegliersi nuovi lettori.

How to be a Scottish resident

Tutto è cominciato con questo articolo del Guardian https://www.theguardian.com/books/2015/aug/21/tourists-offered-chance-to-run-a-bookshop-on-holiday-wigtown  dedicato alla possibilità di fare una vacanza a gestire una libreria, affittando l’appartamento al piano di sopra, in una cittadina sul mare nel sud della Scozia, nel Dumfries & Galloway, Wigtown.

In realtà tutto era cominciato un bel po’ prima, con un prepotente e incontrollabile ritorno di fiamma del mio originario amore per la Scozia che si era già manifestato in diversi viaggi e viaggetti, perlopiù da sola e spesso affittando cottage, in giro per le Highlands e le Western Isles. Quello del self-catering è il mio modo di immergermi nella realtà locale, di cercare di appartenerle, almeno per un po’ – andando a fare la spesa, chiacchierando lungo la strada, famigliarizzando coi luoghi e con le persone. E’ il mio modo di provare a vivere in un modo diverso da quello cui sono abituata.
Di questa opportunità di gestire una libreria mi ha attirato soprattutto la possibilità di fare ancora più parte della comunità locale, una parte attiva e integrata, partecipe,  anche se solo per una settimana.
Ci ho pensato qualche giorno – da sola, e se poi non riesco, non capisco, e come faccio se mi devo assentare, e se non sono in grado, e sarà sicuro… - e poi ho buttato via tutte le paure e le resistenze e ho prenotato la mia settimana. Era proprio l’inizio, ho potuto scegliere e ho scelto l’inizio di Giugno, mese di luce e fiori e magari anche qualche bella giornata.
Per un po’ mi sono baloccata con questo progetto, difendendolo da chi mi prospettava ostacoli e difficoltà (ma vai a lavorare gratis, ma come fai con la lingua, ma hai mai avuto una libreria, ma hai mai fatto la commerciante).
Poi ho smesso di pensarci, travolta all’improvviso da quello che è stato il dolore più grande della mia vita e il periodo più brutto e pesante e doloroso.
Poi ho ricominciato a pensarci, proprio come ad una tregua in tanto dolore.
Quindi ho prenotato l’aereo e ho iniziato ad organizzarmi.
L’idea era quella di affittare un’auto, andare a Wigtown, fare la mia settimana in libreria e poi regalarmi qualche giorno a zonzo per la Scozia, senza mete e sena programmi.
Questo che segue è il racconto di questa parentesi Scozzese.

Sono partita da Malpensa con Easyjet il giorno prima della finale a Milano di Champions e Malpensa era piena di Spagnoli festanti e anticipanti. A dispetto di tutti gli allarmi e le paure c’era un bel clima gioioso e beneaugurante. Pensando che il ritorno sarà nel cuore della notte, ho prenotato il parcheggio, così tornerò a casa in auto.
Col solito ritardo di Easyjet e l’ora di differenza, sono arrivata a tarda sera. Tra ritiro bagaglio, ritiro auto (Rentalcars, http://www.rentalcars.com/it/, Alamo, perfetta), famigliarizzazione con la stessa e la guida a sinistra al buio sono arrivata davvero tardi al mio b&b, prenotato da casa. Mi sono anche persa sulla stradina che porta al b&b a poche centinaia di metri dall’arrivo ma a mia discolpa era davvero buio pesto. La padrona mi ha accolta in camicia da notte e appena un filo seccata. Il b&b a Nine Mile Burn è bellissimo http://www.peggysleafarm.co.uk/: è una farm in mezzo ai campi coi cavalli, a non più di mezz’ora dall’aeroporto ma già sembra di essere distanti anni luce dalla città, dalla folla, dal turismo. L’ho scelto perché sulla strada che volevo fare per andare a Wigtown, vicino al Pentland Hills National Park e soprattutto per la vicinanza a Penicuik, che proprio di recente ho conosciuto leggendo Irvine Welsh, che lo descrive come un posto dimenticato dalla storia in mezzo alla campagna, isolato e impermeabile a tutto, ma l’unica cosa vera nei suoi romanzi sono i nomi dei posti. Tra la sua descrizione di Edimburgo e gli Scozzesi e l’idea che ne ho io c’è una distanza siderale. Lo leggo come uno scrittore di fantasy.

Ho fatto una sola foto, al mattino, prima di partire e prima di capire che questo  stradino mi avrebbe portata in mezzo ai campi. Mentre ne uscivo in retromarcia ho avuto modo di apprezzare, stupita, la retro-visione reale sul monitor della mia auto, che nelle miglia a venire mi avrebbe dato grandi soddisfazioni. Prima di tutte quella di avere un navigatore eccezionale, di cui non m’ero accorta la sera prima.


Seguendo i tondi rossi

Inis Oirr (o Inisheer in inglese) è un’isola incantevole. 
Nel senso che la più piccola delle Irlandesi Aran Islands, e la più vicina alle scogliere di Moher sulle quali offre una vista invidiabile, esercita davvero una forma d’incantesimo su alcuni visitatori, e certamente l’ha fatto su di me.

Sono scesa dal traghetto, dopo una traversata di circa mezz’ora da Doolin, e ho sentito subito di essere arrivata a casa, ho sentito un senso di appartenenza e che l’isola, anche, apparteneva a me. Come si spiega altrimenti che già dopo poco non vedevo l’ora che l’ultimo traghetto salpasse verso Doolin, o verso Rossaveal, così che finalmente l’isola, libera dai turisti giornalieri, fosse solo nostra, solo mia.


 


Questo era il momento che apprezzavo di più: dopo cena, quando il sole stava per tramontare su Inis Meain, e si poteva quasi toccare la quiete nell’aria. 
La prima sera, con un cielo blu profondo illuminato dalla luna, dopo un acquazzone breve ma intenso, ho scoperto una piccola spiaggia nascosta, che è immediatamente diventata la “mia” spiaggia. E ho passato dei bei momenti là, a pensare e ad ascoltare il suono rasserenante dell’oceano.
Sull’isola la gente ti saluta sempre, se hai solo un istante di esitazione in mezzo alla strada c’è sempre chi si ferma e ti chiede se serve qualcosa, due chiacchiere si fanno con chiunque, in ogni circostanza e su qualunque argomento, e una tazza di tè con uno scone non manca mai. Di pomeriggio. Alla sera è una pinta di Guinness quella che si beve in compagnia in uno dei due pub dell’isola, dove se anche sei solo, non ti senti solo. 
E’ una cordialità contagiosa, quella isolana.
E quando incroci qualcuno più di un paio di volte, si è già diventati migliori amici e si inizia a parlare di tutto, dal tempo all’oceano, dalla politica ai pettegolezzi, dalla tua vita alla mia vita.
E’ un’isola da assaporare lentamente e in solitudine. Certo si può noleggiare una bici, ma le stradine sterrate sono tutte un saliscendi e la pedalata spesso diventa molto impegnativa; ma soprattutto in bici non si possono seguire i tondi rossi, e non farlo sarebbe un gran peccato.
Quando si arriva al cospetto dell’oceano, i sentieri e i campi finiscono e iniziano le rocce. E sulle rocce ci sono i tondi rossi, quelli che se li segui ti senti sicura, con una meta e una strada, un esploratore alla scoperta di un mondo per te nuovo ma antichissimo e pieno di bellezze e di pace.
Ho camminato quasi tutta questa piccola isola, che è più grande di quanto ti aspetti o t’immagini, e più varia e più ricca; e ho guardato l’oceano, e ne ho respirato l’energia e la forza, per poterci attingere ancora una volta tornata alla mia casa vera.
E’ un’isola da camminare tutta, Inis Oirr, percorrendo passo dopo passo i sentierini tratteggiati da centinaia di muretti di pietra che dividono tanti piccoli terreni dove pascolano placide mucche, qualche cavallo e poche pecore, attraverso un paesaggio che cambia in continuazione, dove è facile avere la sensazione d’essersi persi, ma basta guardarsi in giro per ritrovare il faro, o il relitto della Plassey, le imponenti scogliere di Moher sulla terraferma, la lunga costa esposta all’oceano, la spiaggia riparata, il lato che affaccia su Inish Meain e che guarda a Ovest e all’oceano aperto, e quindi ritrovare il proprio posto sull’isola, ma anche nel mondo e dentro di sé.
E’ un’isola da meditazione, Inis Oirr.
Questa è un’isola di mare e pietre, di grigio e blu, di pochi fiori selvatici e nessun albero. Un’isola dagli acquazzoni brevi e violenti e dalle lunghe giornate di sole, circondata dall’oceano che sembra tanto mite e tranquillo quando lo guardi dagli scogli ma che non lo è altrettanto quando lo navighi in traghetto.
O forse è l’isola che non ti lascia partire volentieri, che non vuole spezzare  l’incantesimo. Magari l’isola voleva tenermi là. E io avrei voluto restare.

Alla scoperta di Terre Nuove - parte 4 di 4

Dopo l'entusiasmo per gli iceberg , la meraviglia del Gros Morne NP , la visita di siti archeologici e l' esplorazione del nord  che...